Capitolo 1
IL RISVEGLIO
Un rumore sordo e di colpo aprii gli occhi: un frenetico brusio arrivava dalla strada, ma era una lingua strana, dal forte accento, che inutilmente cercavo di capire, di tradurre. Forse stavo ancora sognando. Ma fu solo un attimo è questo pensiero era già svanito .
Adesso potevo fare solo una cosa: alzarmi, raggiungere la cucina e prepararmi un buon caffè. Svogliatamente arrivai in cucina, istintivamente guardai il vecchio orologio alla parete e notai, con disappunto, che erano ancora le sette di mattina. Provai ad affacciarmi alla finestra, facendo attenzione a spostare delicatamente le tendine per evitare di essere scoperto ma, con mia grande sorpresa, vidi che la strada era vuota, quasi deserta. Solo qualche ombra si aggirava in lontananza intenta a raggiungere la fermata del tram dall’altra parte della strada.
Non riuscivo a crederci. Di quelle urla femminili era sparita ogni traccia. Mi arresi all’evidenza e mi affrettai a preparare il caffè seguendo il solito rituale. Quando quel liquido nero e cremoso fu pronto, mi sedetti con la tazzina fumante ancora in mano e lentamente iniziai a guardarmi intorno. Solo allora mi resi conto che ogni parete della casa era tappezzata con un’orribile carta da parati di colore giallo tenue. Chiusi gli occhi e con il pensiero abbandonai rapidamente quella casa per dirigermi, aiutato dai ricordi, verso quella distesa di sabbia color oro e quel mare azzurro che avevano allietato gran parte della mia gioventù in Italia.
Ancora non conoscevo esattamente il motivo che mi aveva spinto a fuggire da quei luoghi splendidi e cercare rifugio nell’est Europa, a Minsk. Qui avevo trovato una nuova casa e una vera famiglia che mi aveva accolto senza fare troppe domande. Ora questo posto mi sembrava come un deserto di ghiaccio, immenso e sconfinato, completamente aperto ed esposto a tutte le intemperie, con la costante presenza di un vento forte e gelido che soffiava e urlava perennemente sulle finestre delle case.
A quasi cinquant’anni ancora mi illudevo di diventare un grande romanziere mentre, in realtà, mi ero trasformato in un anonimo scrittore ombra, un ghost writer, pagato per scrivere articoli e storie, che poi sarebbero stati firmati da altri. Tra l’altro era un lavoro pagato poco e male, ma che mi permetteva di restare a galla e di sopravvivere, almeno fino a quando avrei avuto il coraggio di farla davvero finita con quella inutile esistenza.
Riguardai l’orologio e vidi che il tempo era trascorso velocemente: ormai erano già le otto di mattina e non avevo ancora acceso il computer. Dovevo rimettermi subito a lavorare perché avevo ancora tante cose in sospeso da finire; ma prima di immergermi nella routine quotidiana decisi di prendermi ancora qualche minuto per leggere le ultime notizie e qualche e-mail. La mia coscienza mi avvertiva che non potevo perdere altro tempo per trastullarmi nei miei inutili e malinconici pensieri: dovevo assolutamente finire la correzione della bozza sulla nuova riforma pensionistica.
Al momento di accettare l’incarico sapevo che sarebbe stato un lavoro lungo e noioso ma, in ogni caso, mi avrebbe permesso di mangiare e pagare le bollette per i prossimi tre mesi. Non potevo rifiutare anche perché ero già in arretrato con l’affitto della mia stanza. Olga, la gentile proprietaria dell’appartamento dove vivevo, quando mi vedeva triste e sconsolato, cercava di tirarmi su il morale, ripetendomi, nel suo incerto italiano: «Roberto, non preoccuparti dell’affitto, sono sicura che tutto si risolverà presto.» Desideravo farmi perdonare per tutti quei ritardi che, ormai, stavano diventando una cattiva abitudine e pensai di invitarla a cena o di comprarle dei fiori, di quelli che lei amava tanto: le rose rosse.
Olga era una donna dolce e gentile e aveva grandi occhi a mandorla, che tradivano le sue origini usbeche. Era nata in un’ex repubblica che un tempo apparteneva alla vecchia Unione Sovietica, ma ci teneva a puntualizzare che la sua mamma aveva origini russe e che, per metà, anche lei si sentiva russa. Da poco aveva superato la quarantina ma la sua bellezza non era ancora del tutto sfiorita: si vedeva che amava tenersi in forma; aveva il viso e le mani curate, i suoi capelli sempre in ordine.
Mi aveva raccontato la sua triste storia. Era stata sposata con uno straniero per oltre venti anni, un egiziano che aveva lavorato a Minsk come professore universitario e con il quale aveva avuto tre figli. Le prime due figlie ormai erano grandi, rispettivamente di diciotto e quattordici anni, mentre l’ultimo figlio, il maschio, aveva appena compiuto undici anni. Il marito l’aveva lasciata ed era andato via di casa due anni prima del mio arrivo: le aveva detto di sentirsi stanco di quella vita familiare, della monotonia di una città che, dopo tanti anni, ancora non riusciva a capire.
In realtà il marito non avev