Capitolo 1: Il Silenzio del Mondo
L’aria era fredda e sottile, e il vento portava con sé il sapore della cenere e della polvere. Robert chiuse gli occhi per un attimo, ascoltando il profondo silenzio che avvolgeva la terra. Dopo lunghi mesi passati nel suo rifugio sotterraneo a sopravvivere all’inverno nucleare, quella quiete era la cosa più strana di tutte.
Guardò la sua motocicletta, un mostro d’acciaio e gomma che lui stesso aveva riparato e amato. Era l’unica cosa che funzionava ancora in quel mondo rotto. Con un profondo respiro, Robert decise: era ora di uscire, di cercare altri sopravvissuti, di non essere più solo.
Il motore ruggì, rompendo il silenzio morto del deserto. Robert partì, lasciandosi alle spalle la sicurezza della tana. Guidava per ore, attraverso paesaggi piatti e grigi, sotto un cielo che non era più veramente blu.
All’improvviso, in lontananza, vide una figura. Era piccola e tremante, e camminava a fatica nella sabbia. Robert avvicinò la moto con cautela. Era un uomo, vestito con una giacca rossa e jeans. La giacca era diversa dai normali stracci dei sopravvissuti. L’uomo alzò una mano debole, i suoi occhi pieni di una stanchezza infinita.
Dialogo:
“Fermati… per favore”, sussurrò la figura con voce roca.
Robert spense il motore e scese, tenendo una mano vicino alla spada che portava sempre sulla schiena.
“Chi sei?“chiese Robert.
“Mi chiamo Kennet...vengo… vengo dalla Centrale”, disse l’uomo, cadendo in ginocchio. “Sono scappato. Non ce la facevo più… quella vita… non era vivere. Per favore… ho una sete terribile… dammi da bere, ti prego”.
Robert lo osservò per un momento. Vedeva la disperazione sincera nei suoi occhi. Aprì uno dei suoi contenitori e gli offrì una bevanda calda e scura.
“Ecco. Bevi. È mate. Ti darà forza”.
Kennet bevve con avidità. Un’espressione di sorpresa gli illuminò il volto.
“È… buono. Caldo. Grazie”.
Dopo che Kennet si fu ripreso un po’, Robert gli parlò della sua missione.
“Io cerco altri come noi. Sopravvissuti. Non voglio più nascondermi. Voglio trovare persone, costruire un luogo sicuro, una fortezza dove poter ricominciare. Dove possiamo vivere in pace. Hai una moto?”
Kennet annuì, indicando un punto all’orizzonte. “Sì, è laggiù. Si è rotta, non so ripararla”.
“Io so come fare”, disse Robert. “Uniamoci. Insieme abbiamo più possibilità di vivere”.
Kennet, ora con speranza, accettò. Dopo aver riparato la moto di Kennet, i due partirono insieme. La loro destinazione era una città abbandonata che sulle vecchie mappe era chiamata “La Nostra Missione”. Forse lì avrebbero trovato qualcuno.
Ma la loro speranza durò poco. Appena arrivati ai primi edifici della città, un gruppo di figure aggressive e sporche, i “selvaggi”, uscì dalle macerie. Erano armati di clave e coltelli rudimentali. Attaccarono senza dire una parola.
Robert non perse tempo. Con un movimento fluido, estrasse la sua spada lunga e lucida. La lama luccicò sotto la luce fioca. Kennet si mise in difesa con un pezzo di metallo, ma era chiaro che non era un combattente.
Un selvaggio corse verso Robert urlando. Robert si spostò di lato con agilità e con un colpo preciso della spada gli fece cadere l’arma di mano. Un altro attaccò da dietro, ma Robert lo sentì, si girò e bloccò il colpo con l’elsa della spada, per poi colpirlo con il calcio dell’arma. Non li uccise, li neutralizzò solo. La sua abilità con la spada era incredibile; era come una danza mortale in mezzo al caos. In pochi minuti, tutti i selvaggierano a terra, disarmati e senza più voglia di combattere.